
Se oggi parlare di disturbi mentali non è più un tabù, è vero anche che se ne parla spesso in modo improprio e un lessico psicoterapeutico banalizzato fa perdere un po’ di precisione, di consistenza a quella che realmente è una diagnosi.
Quello che però mi sembra evidente è che il bisogno di non restare invisibili o stigmatizzati a seguito di una diagnosi fa sì che si tenda a parlare della propria malattia mentale apertamente, cercando di aprire un dialogo che riguarda tutti.
In questo senso questo il libro di cui vi parlerò risponde in modo intelligente a questo bisogno, offrendo spunti interessanti su tematiche tanto spaventose.
”Stranieri a noi stessi” attraverso la storia di sei persone, racconta la sofferenza della malattia mentale, cercando le parole per creare un percorso di cura ma anche semplicemente di rappresentazione.
L’autrice Rachel Aviv scrive per il New Yorker e in questo libro è una delle sei protagoniste di questo memoir.
La scrittrice vuole indagare questo terreno di fragilità in cui corpo e mente cercano di combattere le proprie imperfezioni ed emozioni, manifestando altre versioni di sé, trovando strategie di sopravvivenza che ci rendono “stranieri a noi stessi”.
Lo stigma sociale “è un problema relativo al fatto di non avere un linguaggio esistenziale ordinario a disposizione per parlare della sofferenza mentale” eppure Rachel Aviv riesce a trovare un vocabolario, fatto di diagnosi, storie ma soprattutto ci mostra un nuovo sguardo.
Così conosciamo “Bapu, venerata come una santa negli ashram dell’India e bisognosa di cure mentali per la sua famiglia; Naomi, incarcerata dopo un tragico episodio di psicosi e alla ricerca disperata del perdono dei propri figli; Ray, medico caduto in disgrazia che ha dedicato la vita a vendicarsi dei suoi analisti; Laura, promettente studentessa di Harvard che dopo anni di terapie e diciannove psicofarmaci diversi non sa più chi è senza medicine. E Hava, che a ogni nuovo diario si impegna a trovare la forza per superare l’anoressia, ma si sentirà fino alla fine una «straniera a se stessa»”.
In un’intervista all’Avvenire, la scrittrice racconta:
Penso spesso che arriva un punto in cui una malattia si trasforma in un’identità e penso che a volte per alcune persone questo possa essere davvero positivo, come se avessero trovato un posto e andasse bene, come se desse loro un senso di comunità. E poi penso che per altre persone, o in altri momenti della loro vita, possa sembrare che quell’identità li intrappoli, che li limiti e che improvvisamente non sappiano chi sono al di fuori della malattia, e questo è pericoloso perché significa che la guarigione è una perdita di identità e di respiro.
Nel complesso non è un libro che consiglierei a chiunque perché ci sono delle parti più “tecniche” non facili da seguire e molti riferimenti a studi che riportano infatti ad una lunga bibliografia.
Andando avanti con le storie, in particolare le ultime due, si riesce a trovare un senso più completo anche se non c’è una risposta definitiva, un aiuto concreto se non quello che ogni storia è a sé ed ognuno deve trovare una strada personale per trovare un supporto all’inquietudine che ci portiamo dentro e sul “bisogno che abbiamo di raccontarci e farci raccontare dagli altri nel tentativo di conoscerci. Perché niente come una storia ha il potere di cambiare -nel bene, nel male – la nostra identità e quindi la nostra vita.”
Titolo: Stranieri a noi stessi
Autrice: Rachel Aviv
Edizioni: Iperborea