Il lavoro non ti ama

“Che ne faresti del tuo tempo se non avessi bisogno di lavorare?” ci domanda Sarah Jeff, giornalista indipendente americana, nel capitolo conclusivo del suo libro “Il lavoro non ti ama o di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli”.

Un domanda potente, come il titolo di questo libro che difficilmente lascerà indifferente una qualsiasi persona che non ami raccontarsi delle bugie.

Siamo talmente abituati a sentirci dire che è attraverso il lavoro che troveremo la nostra soddisfazione, realizzazione, felicità, che facciamo sacrifici enormi per qualcosa che difficilmente ci darà quello che realmente desideriamo.

Dovremmo lavorare per il piacere di lavorare, invece di lamentarci del fatto che grazie a noi altre persone si stanno arricchendo mentre ci facciamo in quattro per pagare l’affitto e a malapena riusciamo a vedere gli amici.

Una delle più grandi menzogne inventate dal tardo capitalismo ha creato moniti come “Fai quello che ami e non lavorerai un giorno della tua vita”. Spesso li troviamo anche nelle pagine motivazionali di alcuni social o nelle foto di alcuni amici che magari hanno avuto una giornata su cento più piacevole delle altre.

La verità è che il lavoro riesce perfino a rovinare le cose che ami perché nella realtà quello che ci viene chiesto è una quantità di tempo enorme, delle paghe quasi mai adeguate, dei premi di produzione ridicoli che per raggiungerli, molto spesso, dobbiamo lavorare ancora più duramente di quello che facciamo di norma, creandoci ancora più ansia e frustrazione.

Attanagliati da stress, ansia e solitudine, ciò che ci viene richiesto è una disponibilità praticamente illimitata e senza orari. La storia del lavoro fatto per amore è, in poche parole, un truffa.

Questo tipo di pressione coinvolge ogni categoria di lavoratore e Sara Jeff mette tutta la sua esperienza e bravura da giornalista nel riportarci in questo libro le tantissime storie che le sono state raccontate. Inizia affrontando come il capitalismo abbia sfruttato le donne per far sì che il loro presunto “innato” istinto di accudimento e amore le obblighi ad occuparsi della famiglia privandole di scegliere e colpevolizzandole continuamente di qualsiasi scelta.

Di come il lavoro domestico, dalle baby sitter alle persone che si occupano delle pulizie, alle badanti e simili, ricevano spesso il ricatto morale di essere “ormai di famiglia” per giustificare pretese spesso problematiche.

Questo tipo di esperienze le abbiamo vissute tutti in qualche modo. Io non posso non pensare a quando ho fatto la ragazza alla pari i primi mesi del mio Erasmus a Parigi a due bambini bilingue e come questa signora pretendesse da me sempre di più fino a chiedermi un contributo per la corrente che pagava per la mia “chambre de bonne” di 50 euro al mese.

Quando esausta me ne sono andata lei ha tentato di farmi sentire in colpa dicendomi che questi poveri bambini che vivevano a due passi dagli Champs-Élysées avrebbero sofferto per il mio abbandono e che vivere a Parigi era molto duro e le sarebbe dispiaciuto incontrarmi un giorno a pulire qualche bagno di McDonald’s.

Il filo conduttore di tutto il libro è che se non riusciamo ad amare il nostro lavoro, questo deve diventare la nostra vergogna personale, ancora più evidente in tutti quei lavori che richiedono una particolare predisposizione verso gli altri: insegnanti, commesse, società no profit.

Ma anche tutti i lavori creativi sono ormai immersi in questa dinamca perversa: artisti, programmatori, accademici.

Tante dinamiche riusciamo a trovarle anche tra gli sportivi che spesso vengono visti solo come dei privilegiati.

Ho trovato questi racconti da una parte estremamente interessanti, ma allo stesso tempo anche un po’ ripetitivi per il fatto che mi era molto chiaro il messaggio che l’autrice voleva dare.

La difficoltà di distinguere il confine tra lavoro e famiglia ci spinge a cercare nel nostro lavoro qualcosa da amare, qualcosa che magari ci manca altrove.

Dirottare l’amore per gli altri indirizzandolo verso il nostro ambiente di lavoro non serve ad altro che a minare ogni tipo di relazione.

Siamo poi talmente convinti dell’idea che il lavoro debba essere una fonte di realizzazione personale che pensare il contrario ci fa sentire sbagliati.

Quello che potremmo cercare di fare è smetterla di colpevolizzarci e capire che l’amore è qualcosa che esiste tra le persone e che deve essere ricambiato e solidale.

Tutte caratteristiche che il lavoro non ha.

Rifiutando questa idea potremmo iniziare a concepire quale valore abbia dunque

il piacere della ribellione, dell’azione collettiva, della solidarietà, di stare fianco a fianco negli scioperi, di ritrovarsi tra colleghi a discutere di come cambiare le proprie condizioni di lavoro.

Iniziare a cambiare prospettiva e domandarsi quale altro modo possa esistere per vivere meglio è un inizio che dobbiamo concederci e questo libro dà senza dubbio moltissimi spunti interessanti.

Liberare l’amore dal lavoro perciò diventa la chiave per cambiare il mondo. La gente ha iniziato a rivendicare spazi per sperimentare come significhi amarsi a vicenda al di fuori delle richieste del lavoro capitalistico. Come scrive Silvia Federci, riprendendo Platone: “un esercito di persone che amano sarebbe invincibile”. L’amore, secondo lei, è in grado di condurci oltre noi stessi. “È il grande anti-individualista, il grande unificatore”. Per tenerci separati l’uno dall’altro, il capitalismo deve controllare i nostri affetti, la nostra sessualità, i nostri corpi; e il più grande trucco che gli sia mai riuscito è stato convincerci che il lavoro fosse il nostro più grande amore.


Titolo: Il lavoro non ti ama

Autrice: Sara Jaffe

Editore: Minimum fax

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Laureata in filosofia, giornalista pubblicista, podcaster, formatrice, amo i gatti, i libri e viaggiare.
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