Le radici

Sono sempre stata attratta dalle potenzialità degli altri, dall’intelligenza, dalla cultura, da tutto ciò
che venisse dalla mente e che l’essere umano sia fatto evidentemente per pensare mi pare possa essere considerato ormai un dato di fatto.
Pensare bene poi è un’altra questione ancora.

Quando ho conosciuto la filosofia ho trovato un mondo dove finalmente potevo guardare senza porre limiti al mio sguardo.
Da sempre sostengo che questa materia sia molto più pratica rispetto a quanto sostenuto da tanti, proprio per questo ho sin da subito cercato un modo per lavorare con la filosofia, non per insegnarla, ma per metterla in pratica.

Ho così scoperto la consulenza filosofica, ho scritto una tesi sull’argomento e trovavo particolarmente affascinante l’idea che la filosofia potesse aiutare nella vita di tutti i giorni.
Come ancora oggi accade quando si cerca di portare la filosofia nelle “piazze”, alla portata di chiunque, dal mondo accademico non sono mai mancate le critiche, come se questa attività impedisse loro di continuare a scrivere opere complicate per pochi eletti.

Ma questo è un altro argomento ancora: quello di pensare che permettere l’esistenza di tanti modi di esistere possa levare quelle libertà già acquisite e la possibilità di essere chi vuoi.

Nella mia ricerca di alternativa alla filosofia accademica da cui non mi sentivo rappresentata ho cercato di capire quale potesse essere la sfumatura per mettere in pratica la filosofia nonostante l’imbarazzo di affermare di essere filosofa o anche solo di studiarla.

In alcuni contesti ancora oggi provo questa sensazione quando mi viene chiesto cosa ho studiato.
Hermann Lübbe(1926), filosofo tedesco, nella premessa al suo libro “A che scopo la filosofia?” sosteneva che il filosofo prova vergogna a definirsi tale in quanto “attraverso lo studio della filosofia non si raggiunge nessuna qualificazione civile-professionale” e questa carenza viene sentita come una macchia sullo stato civile. Infatti, a chiunque venga domandato che lavoro faccia dice senza esitazioni “faccio il commerciante, lo psicologo o quant’altro”.
Il filosofo invece prova imbarazzo.

Gerd Achenbach (1947), filosofo tedesco e fondatore della prima consulenza filosofica, scrive in una sua opera che ci sono due ragioni del perché si prova imbarazzo.
Una è una sopravvalutazione, l’altra una sottovalutazione.
Una stima e una sottostima. La stima riguarda la filosofia e la sottostima noi stessi. Noi pensiamo la filosofia troppo elevata per poterci chiamare filosofi senza vergogna e, sotto questa prospettiva, pensiamo troppo male di noi stessi”.

Il filosofo, infatti, oggi viene definito tale solo se è un insegnante di filosofia o se ha scritto numerosi saggi sull’argomento.
Non esiste la figura del filosofo di professione e questa mancanza di identità non viene vissuta serenamente.
Per pagarmi gli studi ed essere indipendente ho lavorato tanti anni come venditrice ed ho sempre avuto grandi conflitti interiori su cosa rispondere alla domanda: “Di cosa ti occupi? Che lavoro fai?”

Sono tanti i modi in cui la filosofia oggi viene utilizzata per migliorare contesti lavorativi, sociali, culturali e credo che in qualche modo quella “vergogna” sia stata superata, ma il bisogno di spiegare resta sempre, un po’ perché siamo filosofi e per definizione ci piace complicarci la vita, un po’ perché i collegamenti possono non essere immediati per tutti.

Nel mio percorso ho avuto modo ad un certo punto di occuparmi di formazione e lì ho preso coscienza della soddisfazione che provavo nel cogliere la realizzazione delle persone che avevo modo di seguire, vedere il loro potenziale e, fin dove potevo, aiutarle a tirarlo fuori, o almeno a farglielo notare. Non solo perché quel potenziale poteva renderle soddisfatte ma anche perché mi sentivo arricchita come persona vedendo abilità, capacità e modi di elaborare dai quali potevo io stessa imparare qualcosa.

È stato allora che mi sono detta che avevo bisogno di capire come potevo lavorare con questa cosa e tra le mie ricerche mi sono imbattuta nel coaching.
Non ho mai amato particolarmente la lingua inglese e provo istintivamente diffidenza verso tutto ciò che viene dal mondo anglosassone, pur essendoci cresciuta ed apprezzandone tantissimi aspetti.

Questa parola, che conoscevo principalmente in ambito sportivo, era nella mia mente legata all’idea del motivatore, di quella persona che urla frasi motivazionali, che in alcuni casi ti insulta per farti reagire, ti dice cosa e come fare, l’importante è seguire quello che dice per arrivare all’obiettivo. Se per alcuni aspetti ritengo che una figura del genere possa essere utile in alcune situazioni, di certo io non potevo essere un coach, perché vivo nel dubbio, mi pongo domande, raramente reagisco d’istinto ma, soprattutto, le frasi motivazionali che non si reggono su basi solide, i premi scelti da altri per raggiungere obiettivi mi hanno sempre fatto esattamente l’effetto opposto: mi fermo, non voglio partecipare a quella gara.
Mi chiedevo anche perché si dovesse usare una parola inglese e non avere una traduzione in italiano.

Tutte critiche che si rivelarono in realtà piuttosto inutili: questo coaching non aveva nulla a che vedere con quella roba.

Esiste, certo, anche un tipo di coaching del genere, ma poi ho scoperto l’esistenza di associazioni molto serie con basi solide, studi importanti, persone preparate che hanno messo insieme concetti ripresi da filosofi, da studiosi della mente umana.
Ho approfondito e mi è talmente piaciuto tutto che alla fine mi sono decisa ad iscrivermi ad un master della ICF (International Coach Federation).

Coach Ungherese – fonte: wikipedia

Per spiegare il coaching spesso viene usata la metafora del viaggio, considerato come il mezzo di trasporto sul quale il coach e il suo coachee salgono insieme, ma solo quest’ultimo sceglie la meta.
Oltretutto l’origine della parola coach deriva da Kocs, un comune ungherese dove nel 1500 si fabbricava una particolare carrozza condotta da un cocchiere e trainata dai cavalli.
Oggi ancora leggiamo coach sui nostri treni per indicare i vagoni, spiegazione che è anche stata utile per farmi passare l’antipatia iniziale per questa parola.

La metafora del viaggio per descrivere la vita ritengo sia sempre molto efficace: tutti viaggiamo.
C’è chi sale e si lascia trasportare, chi si mette alla guida, chi organizza tutto nel minimo dettaglio e
sceglie le tappe e con quale mezzo andare, a volte lasciare tutto al caso ci porta in posti meravigliosi, altre volte no.
Il coach vuole stimolare quella consapevolezza per scegliere verso quale direzione andare, aiutarlo nello scegliere il mezzo, ponendo domande, rispettando i suoi tempi e mai sostituendolo o dandogli risposte.
Questo approccio mi ha fatto pensare alla pars construens di Socrate del metodo maieutico fondato sul dialogo: come le levatrici aiutavano le partorienti a dare alla luce i loro figli, Socrate tirava fuori i pensieri grazie alle domande che faceva fingendosi ignorante, costringendo l’interlocutore a metter in discussione le sue posizioni, portandolo anche a rivedere le sue convinzioni.
Le radici del coaching hanno molto a che vedere con tanti filosofi dell’antichità e sicuramente questo aspetto è quello che è risuonato più forte dentro di me.

Alcuni esempi?

Accrescere la propria consapevolezza, concetto fondamentale del coaching, era scritto sull’oracolo sul tempio di Apollo a Delfi.

L’invito di Pindaro a divenire ciò che si è.

Quante volte avrete sentito citare la famosa frase di Seneca “Non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”?
Anche questo è un concetto fondamentale nel coaching: se non abbiamo un obiettivo chiaro, definito e raggiungibile, non possiamo aspettarci di raggiungere la meta.

Scoprire la propria verità avendo il coraggio di intraprendere il viaggio, come Parmenide racconta nel suo poema “Intorno alla Natura”.

L’invito di Eraclito ad accettare il cambiamento, il famoso pánta rei, l’impossibilità di bagnarsi nella stessa acqua di un fiume che scorre, perché pur tornando in quel fiume, non si sarà più la stessa persona.

Sono tanti gli approcci, i modelli, le scuole, le critiche, i punti di contatto del coaching e negli anni ho imparato a fare mio quello che ho ritenuto opportuno ed a scartare quello che non sentivo nelle mie corde.

Sto imparando ad utilizzare le competenze acquisite nel mio lavoro, pur con tutte le difficoltà e le limitazioni che comporta lavorare all’interno di aziende che hanno le loro regole e convinzioni.
Tutto però è utile se riusciamo a riconoscere dove c’è valore, luce, preparazione.

Concentrarmi sulle persone, sulla loro evoluzione, sulle dinamiche relazionali, sulla comunicazione.
È questo l’obiettivo che voglio raggiungere sfruttando il coaching, la filosofia, l’osservazione e l’analisi del mondo che mi circonda.

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Laureata in filosofia, giornalista pubblicista, podcaster, formatrice, amo i gatti, i libri e viaggiare.
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