La pasta fredda di nonno

Tra le cose belle dell’estate che non cito qui, c’è sicuramente la pasta fredda.

Non una pasta fredda qualsiasi ma quella che faceva nonno Paolo.

La pasta fredda di nonno non aveva nulla a che fare con tutte le ricette di pasta fredda che abbiamo in mente.

Innanzi tutto era fatta con la pasta all’uovo fatta da lui.

Poi aveva un sugo semplicissimo: olio, passata di pomodoro, sale e basilico.

Una semplice pasta al pomodoro mangiata fredda.

Ma quanto era buona?

Quanto?

Quanto il sapore delle cose semplici fatte bene.

Come i momenti di felicità fatti da piccole cose essenziali, in cui stai bene senza rendertene conto.

Ogni estate ci penso ad un certo punto, quando fa caldo e ho fame e vorrei mangiare qualcosa di buono.

La malinconia, la voglia impossibile di essere lì, entrare leggera a casa dei nonni, sempre più fresca della nostra, trovare in cucina nonno a petto nudo, con solo i pantaloncini e le ciabatte Champ che traffica mentre cucina e nonna concentrata a preparare anche lei qualcosa, con il grembiule addosso piegato a metà, che la copre solo dalla vita in giù.

In pochi secondi avere la soddisfazione che anche questa volta non sarò delusa: c’è sempre qualcosa di buono, sempre.

Perché loro sapevano esattamente cosa e quanto ci piaceva e quindi veniva preparato in quantità tali da avanzare e nutrirci per almeno un altro paio di giorni.

La pasta fredda era uno di quei piatti che almeno due volte andava presa.

Per questo oggi quando ho deciso di provare a rifarla, non ho avuto dubbi che andava messa tutta la confezione di pasta all’uovo, usata tutta la passata, staccate tante foglie dalla piantina di basilico.

Quel quanto basta è in questo caso quel tanto che basta.

Devo dire che è venuta buona.

Certo, la pasta non l’ho fatta io, era confezionata e per quanto discreta non potrà mai essere come la pasta che faceva nonno a mano.

Però era lei in qualche modo.

Quello che mancava davvero alla pasta fredda è tutto quello che è impossibile far tornare indietro: i nonni, le domeniche tutti insieme, la spensieratezza di essere bambini, fare il bis, il tris di primo, secondo, contorno, bere coca cola, mangiare frutta e dolce e non sentirsi mai davvero pieni, anzi, fare pure merenda il pomeriggio, oppure di nascosto andare a prendere una forchettata della pasta avanzata.

Ho seguito un consiglio letto venerdì su un libro di cui presto scriverò che diceva che

la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta.

Non pensarlo ma scriverne oppure cucinare, ancora meglio cucinare e poi scriverne.

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Laureata in filosofia, giornalista pubblicista, podcaster, formatrice, amo i gatti, i libri e viaggiare.
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