Strumenti per abbattere gli stereotipi sul corpo, contro il fat shaming.

Rafforzando l’idea pericolosa del “corpo civilizzato”, la denigrazione dei grassi si unisce ed esacerba il razzismo, il sessismo, il classismo e l’omofobia, e tutti gli altri mezzi con cui la nostra cultura classifica e opprime le persone in base agli attribuiti corporei e alla posizione sociale. Infatti, se davvero quest’ansia nazionale e internazionale per quanto riguarda “l’epidemia di obesità” vuole risolvere dei problemi di salute, è meglio iniziare a spogliarsi del bagaglio culturale che ha alimentato una prospettiva di odio. Altrimenti stiamo semplicemente “curando” le persone per la paura di un’identità stigmatizzata, che ha poco a che fare con rischi reali e fisici di salute. 

Fat Shame. Lo stigma del corpo grasso”, Amy Erdman Farrell

Negli anni ’90 ero una bambina e, come la maggior parte dei bambini della mia generazione, ho passato tanto tempo davanti la televisione tra cartoni animati e pubblicità che ancora oggi tornano nella mia mente come tormentoni indelebili.
Una di queste era quella del Kinder Bueno, che è passata per anni in più versioni, ma sempre con la stessa dinamica: lui chiedeva a lei se volesse andare a gustarsi qualcosa di buono e lei, bella, allegra e magra rispondeva: “Ma sei matto? Mi vuoi tutta ciccia e brufoli?”, mimando un corpo grasso e un viso ricoperto da brufoli

Anche se oggi una pubblicità del genere sarebbe impensabile, esistono ancora tantissimi casi di comunicazione in cui il grasso viene dipinto come una delle cose peggiori che ci possano capitare.

Persino la Disney, che sta lavorando per cambiare la narrazione delle protagoniste femminili nelle proprie animazioni (non più rappresentate come principesse in attesa di essere salvate dal principe, ma eroine indipendenti con personalità fuori dagli stereotipi) ha usato i corpi grassi per raccontare il mondo distopico in cui si ritrova il robot WALL-E. Per evidenziare gli effetti dell’eccessiva dipendenza dalla tecnologia e raccontare la loro involuzione, si è scelto di rappresentarli in questa maniera, senza dubbio facilmente comprensibile, ma che persegue l’idea che il grasso sia un attributo di discredito.

Come nei cartoni animati, anche nei film e nelle serie tv, il corpo grasso è rappresentato in un unico modo: goffo, pigro, imbranato, ridicolo. I personaggi grassi non sono mai stati degli eroi, al massimo la spalla comica del protagonista, nei casi più fortunati sono dei buoni amici, ma sempre buffi e inetti. Molti comici hanno utilizzato il loro corpo grasso per far ridere la gente, perché l’essere grassi in fondo è vista come una colpa, una debolezza e l’unico modo per essere accettati davvero è ammetterlo, rendendosi in prima persona ridicoli, facendo battute ironiche su se stessi, perché essere grassi è una scelta, e quindi ogni aggressione sembra essere legittima.

E oggi i giovanissimi che non sono più influenzati dalle nostre care pubblicità in TV hanno quale unico riferimento le immagini che ogni giorno li bombardano sui social media. Diversi studi dimostrano che vi è una stretta correlazione tra utilizzo dei social, Instagram soprattutto, e disturbi alimentari. Tra i comportamenti più comuni, compaiono il sottoporsi a esercizi rigorosi e il saltare i pasti.

Ma parlando di tutte noi e di questo nostro secondo lockdown che stiamo vivendo: molte persone bloccate a casa senza la possibilità di fare sport e muoversi come d’abitudine, cucinano di più e mangiano di più. Durante la quarantena di marzo-aprile, sui social si è molto dibattuto su come ne saremmo usciti: certamente più grassi.

Alcune persone hanno fatto notare che questa paura espressa in forma di battuta già di per sé rappresenta una forma di offesa e discriminazione: grassofobia, la paura e il disgusto che buona parte della società prova di fronte a un corpo grasso.

Sul web, ogni immagine di persone grasse, ogni tentativo di parlare di body positivity, e di lotta al body shaming spinge migliaia di persone a commentare, spesso in modo cattivo: essere grassi è sbagliato, si può scegliere di dimagrire e se non lo fai è perché non hai forza di volontà, non vuoi smettere di mangiare schifezze e fare un po’ di sport, quindi in pratica sei tu che scegli di essere grasso rinunciando a una vita da magro che ti porterebbe finalmente ad essere rispettato, amato e soddisfatto.

Lo stigma del corpo grasso

In un saggio uscito il 4 novembre 2020 in Italia, “Fat Shame. Lo stigma del corpo grasso”, Amy Erdman Farrell, autrice ed esperta di studi culturali e femminismo, cerca di rispondere a molti dei principali problemi legati al pregiudizio verso le persone grasse, e a come questo si leghi alla discriminazione razziale grazie alla

esplorazione storica dei legami tra corporatura, nozioni di appartenenza e status sociale: in altre parole, l’idea stessa di cittadinanza nella sociologia contemporanea.

L’autrice, spinta da un forte interesse accademico nei confronti dei disturbi alimentari e degli ideali del corpo magro, ha cominciato questo progetto interessandosi alla storia della nutrizione negli Stati Uniti.

Abbiamo una cultura estremamente “attenta al grasso”, ma non ci preoccupiamo dei significati culturali che attribuiamo e su come questi influiscano sulle esperienze di vita delle persone.

Come ogni altra forma di stigma, quello del grasso è relativa e dipende dal contesto storico e culturale. La percezione del grasso, sia esso considerato bello o brutto, pericoloso o sano, un segno di ricchezza o un segno di povertà, differisce da un luogo all’altro e di epoca in epoca.

Gli standard corporei variano parecchio di cultura in cultura.

In Namibia per esempio, le giovani donne si descrivono in termini positivi quando sono “grasse e attraenti”; in Mauritana, le giovani donne che si avvicinano al matrimonio hanno l’obiettivo di arrotondarsi.

Interessante anche scoprire come, dopo l’arrivo della televisione americana negli anni Novanta, gli abitanti delle isole Figi nel Sud del Pacifico abbiano iniziato a soffrire di disturbi alimentari di ogni tipo.

Attraverso le ricerche di Amy Erdman Farrell, sappiamo che già alla fine del XIX secolo, riviste come “Harper’s Weekly” e “Life” pubblicavano numerose vignette che ridicolizzavano le persone grasse e pubblicizzavano prodotti dietetici; nel 1920 le industrie pubblicitarie e consumistiche presero spunto e continuarono a denigrare il grasso, come motore per vendere e innescare la necessità di apparire in un determinato modo e consumare determinati cibi.

Quello che ha destato particolare interesse all’autrice è il significato attribuito al grasso nei pamphlet sulla dieta.

In tutti quegli opuscoli, pubblicità o prodotti per perdere peso, si esprime preoccupazione, disprezzo e indignazione verso il grasso che promettono di sradicare.

Oggi si tende a pensare che lo stigma culturale legato al grasso sia una questione di salute (tra l’altro su questo esistono alcuni studi che dimostrano come il legame tra obesità e cattiva salute non sia sempre veritiero) e dunque si potrebbe pensare che anche nel passato qualcuno possa aver cominciato a fare questo tipo di terrorismo psicologico per far sì che la gente facesse attenzione a non prendere peso.

È evidente dai documenti storici che le connotazioni del grasso e della persona grassa – pigra, insaziabile, avida, immorale, senza controllo, stupida, brutta e senza forza di volontà – sono precedenti e l’esplicita preoccupazione per i problemi di salute si è aggiunta in seguito. Ogni dieta ha sempre portato con sé un più ampio programma sociale o significato culturale. In tutte, il grasso è un problema sociale quanto fisico; nella maggior parte di esse, lo stigma sociale – e la fantasia di liberarsene – coincide o ha addirittura la priorità sulle questioni di salute.

Interessante, nella ricerca di Amy Erdaman Farrell, scoprire anche come alla fine del XIX e inizio del XX secolo, la costituzione fisica sia stata usata come un indicatore importante, insieme al genere, all’etnia o alla sessualità, per misurare “l’idoneità” di una persona per avere i privilegi della piena cittadinanza. Per scienziati e pensatori, il grasso diventò uno dei principali segni d’inferiorità, usando questa caratteristica come prova di stato inferiore. Si credeva che le donne fossero più a rischio di ingrassare e questo confermava la loro posizione gerarchica rispetto agli uomini. Esortare le donne ad essere magre era anche un modo per non scendere ancor più in basso nella scala della civiltà.

Alcuni studi hanno perpetrato nel tempo questa idea: nel XVII secolo esploratori e naturalisti sostenevano che il popolo khoi del Sudafrica potesse essere “l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia”, la più famosa tra loro fu la “Venere ottentotta”.

Il suo corpo fu conservato ed esposto nella Londra dell’inizio del XIX secolo per mostrare insieme ad animali ed altri esempi esotici, persone molto grasse ed altre “curiosità” umane. Il senso di queste mostre era evidenziare le differenze con i corpi “normali” europei rispetto a quelli “esotici”.

Tanti gli studi di antropologi, come quello di Cesare Lombroso che ipotizzò e studiò il concetto di “criminale naturale”, (ovvero il carattere e i tratti distintivi di coloro che hanno tendenze, secondo lui, innate verso la criminalità), hanno portato avanti per anni, l’idea che alcuni corpi e tratti fisici fossero indice di inferiorità. Lombroso sostenne che una delle prove principali che le donne fossero “infantili” e inferiori agli uomini era proprio la loro “maggiore ricchezza di tessuto connettivo adiposo”.

I primi manifesti e alcune copertine di riviste contro la propaganda antisuffragio ridicolizzava le suffraggette rappresentandole grasse, dispotiche e mascoline e le stesse suffraggette, per opporsi a questo tipo di rappresentazioni, cominciarono a rappresentarsi nei manifesti giovani, bianche, magre e seducenti. In questi nuovi metodi propagandistici, il corpo divenne il simbolo principale di dignità e idoneità alla cittadinanza, la bellezza come segno del progresso.

Anche oggi, nella propaganda politica il corpo è al centro dell’attenzione del popolo che guarda. Se pensiamo alla narrazione di alcuni personaggi pubblici, vediamo come la grassezza venga spesso usata come motivo per raccontare la storia di ascesa o decadimento di qualcuno. Da Barack Obama a Britney Spears.  Ma anche in Italia abbiamo esempi di come il successo sia arrivato dopo la perdita di peso.

DIET CULTURE – FITNESS CULTURE

Queste premesse rendono sicuramente più comprensibili le ragioni che abbiamo introiettato da secoli, per le quali, anche se non ridicolizziamo una persona grassa o non ci vogliamo del male se siamo grassi, preferiamo sempre e comunque che il nostro corpo non sia grasso.

Ogni chilo in più viene vissuto, da molte donne, ma anche da tanti uomini, con terrore, angoscia e sensi di colpa.

Negli ultimi anni, si sta parlando di cultura della dieta, ovvero quel sistema valoriale che sceglie per noi alcuni aspetti legati all’alimentazione, al cibo, al comportamento alimentare. Non stiamo parlando di educazione alimentare, ma di una sorta di “imperativo morale” che ci governa e sottostà a leggi più ampie che influenzano il nostro modo di vivere, come ne parla Veronica Bignetti, dietista attiva sui social sul tema. Le leggi economiche, il capitalismo, la differenza di genere, il patriarcato, il mito della bellezza e questo sistema di valori sono tutti legati a questa mentalità estremamente disfunzionale, perché va a impattare negativamente sulla nostra salute fisica e mentale.

Sull’argomento, vi consiglio di ascoltare la puntata di Palinsesto femminista in cui si approfondiscono queste tematiche.

L’ossessione della dieta e a tutte le conseguenze negative che possono portare, se motivate da ragioni sbagliate e senza considerare gli impatti psicologici e fisici che alcune di queste possono causare, è facile che sia accompagnata dall’ossessione del fitness.

Senza nulla togliere all’importanza e ai benefici dell’attività fisica nella nostra vita , alcune persone vivono lo sport come sinonimo di ossessione e stress, come riportato da uno studio di “Nutrimente”, associazione per la prevenzione, la cura e la conoscenza dei disturbi del comportamento alimentare. Si chiama bigoressia, ovvero dipendenza da esercizio fisico e, per quanto possa essere un’abitudine positiva, porta ad alcuni comportamenti senza dubbio negativi. Ossessione nel bruciare calorie, nel voler mantenere un fisico perfetto, non riuscire a vedersi “in forma” senza i muscoli scolpiti, sensi di colpa durante il consumo di cibi non specifici per l’allenamento, e altro.

C’è chi racconta di pensare, mentre mangia, a quali esercizi fare per smaltire il cibo consumato, ma soprattutto, tutto il tempo libero viene dedicato alla palestra, trascurando altri aspetti fondamentali della vita: da quelli culturali agli amici, dal partner alla famiglia, le proprie passioni e il riposo.

Senza dover arrivare a essere dei “maniaci della palestra”, possiamo considerare non sani tutti quei sensi di colpa che proviamo nel momento in cui non riusciamo ad andare in palestra o preferiamo riposarci se ci sentiamo stanche dopo una giornata pesante. È assolutamente normale che in alcune circostanze il nostro corpo di chieda di riposarci e soprattutto lo sport dovrebbe essere fatto con piacere e lasciarci una sensazione di benessere ed energia; trovare un’attività sportiva che ci faccia stare bene è fondamentale per vivere lo sport in modo sano, perché, sì, anche lo sport può essere vissuto in modo malato. Lo sport dovrebbe servire a farci stare bene, a sentirci più forti, più attivi, ma purtroppo troppo spesso viene invece vissuta come il mezzo per raggiungere un determinato aspetto fisico, per ridurre il nostro peso e per seguire quella falsa idea che se saremo magri e tonici allora saremo più felici.

Basterebbe imparare molto di più ad ascoltare il proprio fisico, e assecondarlo.

Come sostiene Annachiara Crea nel suo articolo sulla fitness culture, questo tipo di pressione sembra essere “l’ennesimo strumento capitalista”:

Questi fenomeni “ci inducono a comportarci in un certo modo e ad acquistare beni attraverso la vergogna, il disagio e la costrizione, che non hanno nulla a che vedere con l’autodeterminazione o il libero arbitrio. La soluzione, certo, non è smettere di frequentare le palestre o avere un’alimentazione scorretta e disordinata. Ma quando si arriva a rinunciare a una cena tra amici, ai pranzi in famiglia, a una pizza o a un gelato, o a una birra in compagnia perché essere in forma è molto più importante di tutto il resto, il semplice piacere di allenarsi inizia a diventare un limite. Senza contare, poi, che nessun medico o fisioterapista ha mai consigliato di ammazzarsi di squat o sollevare pesi “per tenersi in salute”: ci sono decine di altre attività che permettono di raggiungere lo stesso risultato e che sono anche molto meno rischiose per il corpo.”

RIFLESSIONI FINALI

Nonostante la presa di coscienza di quanto siano sbagliati gli standard di bellezza, il culto della magrezza, la diet cultureriuscire davvero ad accettarsi e a piacersi è un passo estremamente difficile e, forse, non ci riusciremo mai per davvero e completamente.

Se accettarci non sarà possibile, quello che possiamo provare a fare è cambiare questo tipo di mentalità, essere di esempio per le più giovani e per le generazioni future, affinché possano avvicinarsi a un mondo in cui le discriminazioni non esistano e ogni corpo sia valorizzato per quello che è in quanto essere umano.

Per saperne di più sull’argomento vi consiglio di seguire:

Libri consigliati:

(articolo originariamente scritto per Young Women Network)

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Laureata in filosofia, giornalista pubblicista, podcaster, formatrice, amo i gatti, i libri e viaggiare.
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