La felicità è un atto politico

Quando Giulia Blasi ha annunciato il titolo di questo libro, il primo pensiero è stato che avevo esattamente bisogno di questo.

La felicità è sempre stata qualcosa che ho cercato disperatamente nella vita, ho sempre creduto che nonostante oggettivamente ci siano infinti motivi per essere tristi e stare da schifo, scegliere di essere felici è qualcosa di estremamente coraggioso e lo è anche perché poi quando immancabilmente le situazioni cambiano, la mancanza di qualcosa che faceva stare bene è dolorosissima. La felicità ha sempre un costo ed io “la sola cosa al mondo che volevo era essere felice ad ogni costo” come dice la canzone di Maria Antonietta “Quanto eri bello”, che ho ascoltato fino a consumare.

Nell’epoca del Tapinocene, l’era dell’infelicità, scegliere di perseguire la felicità può davvero essere un atto di resistenza, perché oggi la società ci vuole tristi, con il desiderio di volere sempre qualcosa di più, per venderci qualcosa che ci illuda di poterla raggiungere quella felicità, in più facendolo da soli.

Invece, sostiene Giulia Blasi, la ricerca e il raggiungimento della felicità non sono solo questioni private e individuali, ma sono profondamente intrecciate con le strutture sociali, economiche e politiche che modellano le nostre vite.

Partendo da una serie di riflessioni personali e da un momento di profondo sconforto politico, Blasi parte dall’idea che la felicità non sia soltanto un fatto individuale, privato, quasi “un premio” da conquistare da soli, ma dev’essere intesa come “bene collettivo: «la felicità è “un atto politico, una forma di resistenza collettiva”.

Blasi propone dunque di ripensare la felicità in chiave sociale e politica grazie a relazioni, comunità, diritti, piuttosto che grazie a “ricette” individuali di benessere.

Nel nostro sistema economico-culturale ci sentiamo sempre in difetto, sempre manchevoli di qualcosa.
Nel mercato del lavoro, nelle dinamiche culturali che si sviluppano a causa dell’iper-connessione, tutto sembra essere progettato per farci sentire «troppo fragili, troppo stanchi, troppo soli».

La felicità, invece, è un bene da rivendicare, non come qualcosa in più, ma come un diritto, o almeno un bene che merita di essere difeso e rivendicato collettivamente.

Se vi state domandando se alla fine ci sia un segreto per trovarla questa felicità, ecco, vi smonto subito, non c’è.

Nella complessità di una riflessione sulla quale ci si interroga dalla nascita della filosofia, il libro “non offre soluzioni, ma alleanze, e non promette la felicità, ma invita a reclamarla come bene comune”.

Vi lascio con qualche citazione del capitolo “Io odio lavorare” che mi ha fatto molto ridere, come riesce sempre a fare Giulia Blasi quando scrive anche di cose serissime, che ho sentito molto attuale e che andrebbe preso molto sul serio per iniziare a percorrere davvero una strada che abbia come obiettivo la felicità.

“Non so bene quando ho capito che non mi piaceva lavorare, ma non poteva essere più tardi del 2013, unico anno della mia vita in cui ho avuto un contratto da dipendente e senza ombra di dubbio uno degli anni peggiori sotto il profilo della soddisfazione professionale. Un periodo segnato da un’infelicità mostruosa, che finiva per inquinare anche tutti gli altri aspetti della mia esistenza. (…) Lavorare non mi piaceva, o meglio: non mi piaceva lavorare nel modo in cui mi veniva richiesto, che è lo stesso per milioni di adulti in tutto il mondo. Una delle letture che mi sono state più utili allo scopo di inquadrare il problema è Bullshit Jobs , un saggio del compianto David Graeber pubblicato nel 2018, in cui l’autore traccia una distinzione fra i “lavori del cazzo” (bullshit jobs) e i “lavori di merda” (shit jobs). (…)

Il lavoro del cazzo, o lavoro stronzo, è il tipo di impiego che non capisci a cosa serve, non sembra avere alcun impatto sul mondo e può anche essere fatto male, tanto nessuno se ne accorge. È una situazione alienante, sia che il lavoratore si trovi impiegato per molte ore a svolgere compiti ripetitivi e privi di sostanza, sia che preveda lunghi momenti di assoluta inattività in cui è costretto a fingersi produttivo. In entrambi i casi, la sensazione è quella di stare buttando la propria vita in cambio di uno stipendio che, soprattutto in Italia, non è mai adeguato. Come diceva un mio vecchio collega: “È una così bella giornata di sole, è un peccato regalarla al padrone”. Ho scoperto solo tempo dopo che stava citando Prévert.

Questo capitolo, oltre a toccarmi personalmente, credo che sia molto esemplificativo perché al di là che il nostro lavoro possa piacerci o meno, tocca un tema molto importante, ovvero il tentativo della società di catalogarci, di “annunciarci con una funzione” ma noi non siamo quello che facciamo, non siamo più o meno noi se abbiamo un lavoro prestigioso o no, come non siamo soltanto madri, padri, uomini e donne sposati o altro e tutta questa richiesta di dover rientrare in qualche casella, per poterci mettere dentro uno schema dove poi pretendere qualcosa è estremamente frustrante.

Capire che odiavo lavorare è stato liberatorio, perché mi ha permesso di smettere di sentirmi in colpa quando non avevo voglia di farlo, quando preferivo riempire il mio tempo con attività non remunerative ma soddisfacenti, che mi davano gioia, o anche solo non fare niente.

Stabilire un confine netto, è un tema fondamentale ma che non riesce a risolversi perché viviamo in un sistema tale che vuole fare stare bene solo alcuni sfruttando le persone più deboli.

Capire che la felicità non è un lusso né un capriccio, ma una forma di resistenza quotidiana, che prendersi cura di sé e degli altri può diventare un gesto politico è importante per non farsi pervadere da quel rancore latente che ci circonda costantemente.

Con questo libro, la felicità torna a essere una questione pubblica: un terreno da difendere e da condividere.


Titolo: La felicità è un atto politico

Autrice: Giulia Blasi

Edizioni: Rizzoli

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Laureata in filosofia, giornalista pubblicista, podcaster, formatrice, amo i gatti, i libri e viaggiare.
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