Non sapevo cosa dire.
Aveva quello sguardo assente, di qualcuno che aveva la testa altrove.
Non sapevo se nel luogo dove i suoi pensieri prendevano vita ci fosse qualcosa che poteva creare una connessione tra di noi.
Aveva gli occhi tristi anche quando sorrideva e quei pochi secondi in cui riusciva a provare qualcosa di simile alla gioia, vedevi già che in quel sorriso era solo un’illusione, un’eccezione al suo perenne stato di angoscia, ansia, insofferenza.
Quando mi parlava dava per scontato che io e lei avessimo le stesse idee e cercava conferma nelle considerazioni che faceva mentre io pensavo solo a come evitare di essere scortese o a quale suono potessi emettere per non confermare né smentire il suo pensiero.
Qualche volta ho provato a farle cambiare idea ma era stato possibile solo se la mia alternativa rassicurava il suo mondo, il suo modo di essere, di vivere e di fare. Se andavo troppo in là dalla sua comfort zone, smetteva di guardarmi negli occhi e restava con un sorriso di diffidenza in cui mi domandavo se stesse pensando che fossi scema.
Spesso aveva bisogno di stare al centro dell’attenzione e la ricercava calpestando qualsiasi cosa incontrasse sulla sua strada. Interrompeva conversazioni, si metteva davanti la persona con cui stavo parlando, dava spallate involontarie in modo che potesse stare con me in quel momento, anche se io volevo solo continuare la conversazione che stavo già avendo.
Poi arrivavano quei momenti in cui piangeva e di fronte alle lacrime era difficile per me restare indifferente, allora la ascoltavo e il suo dolore mi travolgeva, mi sentivo cattiva per aver pensato tutte quelle brutte cose su di lei e mi ripromettevo di non trattarla più male, di essere comprensiva ed aiutarla ad affrontare quello che da sola con riusciva a fare.
Poi quando meno te l’aspettavi tornava di buon umore, rideva in modo esagerato per dei dettagli che la facevano ridere e ripeteva ad alta voce la frase che l’aveva divertita, che a me al massimo faceva sorridere e solo quando non ero esasperata dalla sua presenza facevo finta di condividere il divertimento per non lasciarla sola in uno suo raro momento di buon umore.
Quando invece ero più stanca, quei suoi momenti di divertimento mi esasperavano: straparlava, voleva tenere banco e faceva con sicurezza battute che non facevano ridere nessuno senza rendersene conto.
Era scollegata dalla realtà, si preoccupava per cose inesistenti e quelle evidenti non le vedeva, per cui era facile manipolarla ed infatti nella vita tante persone si erano approfittate di lei insinuandole sensi di colpa che la divoravano o dandole l’illusione che qualcuno l’avesse vista per quello che realmente era.
Ma chi era realmente?
Cosa c’era dietro quella maschera di dolore?
Perché guardarla mi faceva sentire così a disagio?
Perché non riuscivo a gestire la negatività che mi trasmetteva?
Quel terrore di avere qualcosa di simile a lei, quella paura di poter essere considerata fastidiosa, di lasciarsi travolgere allo stesso modo da emozioni così umane senza poterne avere il controllo.
Non sapevo cosa dire perché io il mio dolore non ho mai voluto guardarlo in faccia, non ho mai voluto interrogarlo, non ho mai voluto dargli il diritto di esistere.
Invece lei esisteva essendo dolore puro e la sua stessa esistenza mi terrorizzava.
Voglio ascoltarti dolore, voglio guardati negli occhi, voglio asciugare le tue lacrime, voglio darti il diritto di esistere anche se non mi piaci, voglio tranquillizzarti ed essere paziente con te, voglio riuscire a rendere tollerabile l’intollerabile, fai parte di questo mondo, sei qui, esisti e ti accolgo.